Secondo appuntamento con l’amica Chiara Urbani, che in questa rubrica ci illustra una parte del nostro territorio, in questo caso i laghetti delle Noghere, spesso meta di escursioni brevi nel muggesano.
I laghetti delle Noghere
I laghetti delle Noghere costituiscono una realtà storico-geomorfologica di particolare interesse entro l’ecosistema della valle delle Noghere: oltre a costituire un luogo spesso dimenticato del territorio muggesano, rappresentano un efficace esempio di naturalizzazione di un’area antropizzata a scopi industriali in un passato recente, per cui si presta ad approfondimenti tanto storico-culturali che naturalistici.
I “laghetti” conservano una certa suggestione paesaggistica, dovuta all’aspetto selvaggio e lussureggiante che rende difficile la percezione dell’origine antropica del sito, che contrasta da un lato con gli insediamenti aziendali e commerciali esistenti, mentre dall’altro lato appare perfettamente integrato nell’ambiente circostante. L’ecosistema fluviale dell’Ospo, che ha origine in territorio sloveno, conserva delle peculiarità naturalistico-ambientali tipiche dell’ ecosistema fluviale, con una valle costituita da sedimenti alluvionali oggi occupati da piccole radure e orti poderali, e le colline circostanti ammantate di boschi che sono giunti a noi pressochè intatti grazie anche alla vicinanza con la linea confinaria, che ne ha impedito la compromissione a scopi insediativi ed abitativi. Dal punto di vista storico-antropologico, la genesi relativamente recente del territorio lo ha preservato nel passato da operazioni di interramento a scopo agricolo. Allo stesso modo anche l’interesse naturalistico è cosa recente: nonostante numerose esperienze passate di interventi di ripristino e salvaguardia dell’area, sia pubbliche che private, l’area dei laghetti delle Noghere non ha ancora conosciuto un intervento strutturato, sistematico e continuativo di valorizzazione e tutela ambientale, se non in forma episodica e circoscritta.
Per questi motivi parlare dei “laghetti” delle Noghere significa ancora riferirsi a qualcosa in larga parte sconosciuto ed inesplorato, ma che conserva tuttavia un patrimonio storico-culturale e naturalistico di indubbio interesse, in ragione della biodiversità e di una tipicità florofaunistica difficilmente riscontrabili in analoghi territori regionali.
Il nome “laghetti” compare virgolettato perché non si tratta di veri e propri laghi: il termine utilizzato, che fra l’altro non esiste nella nomenclatura limnologica, nell’uso comune sta ad indicare una raccolta d’acqua di modeste dimensioni. I laghi si distinguono dagli stagni per alcune differenze legate alla profondità, alla penetrazione della luce e al comportamento termico della massa d’acqua. Nello stagno, a differenza del lago, la luce penetra lungo tutta la sua estensione, essendo poco profondo, e favorisce la colonizzazione delle piante, dando vita a fenomeni di eutrofizzazione e intorbidimento acquatico.
I “laghetti” delle Noghere, quindi, in relazione alla modesta profondità e allo sviluppo della vegetazione sommersa, rientrano nella definizione specifica di “stagni”. Tuttavia la loro origine è dovuta all’opera dell’uomo, e la loro conformazione imita solo vagamente quella naturale di uno stagno, per cui si può facilmente giustificare l’adozione del termine “laghetti” per indicarli.
Geomorfologia
L’ambiente dove si trovano i laghetti costituisce una particolarità all’interno di un territorio come quello della provincia di Trieste, occupato da una prevalenza di rocce carbonatiche (calcari) che costituiscono il territorio carsico. In relazione alla permeabilità all’acqua e alla composizione chimica delle rocce, il Carso presenta una configurazione geomorfologica estremamente frastagliata e priva di una vera e propria rete idrografica superficiale.
Tuttavia ai margini del territorio calcareo triestino si possono individuare dei lembi di terreni marnoso-arenacei ed alluvionali dove si sono formate alcune zone umide, come accade per l’area dei laghetti delle Noghere.
L’aspetto geologico dell’area è dato dalla presenza di flysch, cioè da una composizione di sedimenti marini depositati in epoca preistorica, che nel territorio è rappresentato dalle arenarie (rocce compatte che per ossidazione presentano un colore ocra-rossastro, e sgretolate assumono una consistenza sabbiosa) e dalle marne (rocce meno compatte, quasi untuose al tatto, che al tocco si suddividono in tanti tasselli).
L’alternanza dei due litotipi non è costante e presenta situazioni diverse. Generalmente il flysch non affiora direttamente in superficie, ma è coperto da uno strato di terreno disciolto che protegge la roccia sottostante dal degrado, ed è definito suolo residuale, cioè quello che rimane dall’alterazione della roccia sottostante. Il colore di questi terreni è generalmente ocra chiaro, che verso la superficie diventa più scuro a causa della presenza di materiale organico (resti vegetali).
All’interno della provincia di Trieste, uno degli esempi più rappresentativi di formazioni geologiche di questo tipo e quindi di zone umide è costituito dalla valle alluvionale percorsa dal rio Ospo. Questo corso d’acqua nasce in territorio sloveno, raccogliendo sia acque di ruscellamento che di origine carsica, e percorre circa 8 km in direzione Nord-Ovest prima di sfociare nella baia di Muggia. La vallata si apre tra colline marnoso-arenacee quali il Monte d’Oro e i rilievi del Bosco Vignano, mentre la piana sottostante è composta da terreni alluvionali di componente prevalentemente argillosa. La porzione pianeggiante prospiciente il mare, detta comunemente valle delle Noghere, costituisce il territorio che maggiormente ha subito profonde trasformazioni antropiche, dovute al diverso utilizzo del territorio, fino ai più recenti insediamenti industriali e poi commerciali e quindi alla configurazione attuale.[/acc_item]
Cenni storici
Le prime notizie sulla Valle dell’Ospo risalgono all’anno 1.000, e documentano l’impaludamento progressivo del territorio e la costruzione di saline e peschiere sulla foce del fiume. Nel corso del Medioevo la valle costituì un importante nodo di comunicazione e commercio, trovandosi nel punto in cui la strada romana che conduceva in Terra Santa si incrociava con quella che portava alle Foci del Timavo ed in Friuli.
Successivamente il territorio venne a configurarsi zona di confine tra il dominio veneto e quello austriaco, in corrispondenza della linea dello spartiacque del promontorio. In conseguenza alla decadenza di Venezia, cui Muggia era assoggettata, le saline di S. Clemente vennero chiuse con un decreto governativo austriaco, favorendo indirettamente le saline austriache di Zaule.
Dopo l’abbandono delle saline la valle venne occupata da paludi e canneti e vi si diffuse la malaria. Solamente con il Novecento la zona fu interessata da un lento ripopolamento, dapprima con la costruzione della linea ferroviaria Trieste-Parenzo, soppressa dopo pochi anni, e quindi in seguito ad alcuni interventi di carattere industriale che accelerarono il naturale processo di interramento con bonifiche artificiali e discariche.
Nel 1953 il Governo Militare alleato affidò all’EZIT (Ente Zona Industriale di Trieste) l’amministrazione del comprensorio industriale della valle dell’Ospo. L’ente operò numerosi interventi che modificarono il sistema idromorfologico dell’area. La sistemazione industriale richiese lavori di bonifica, arginamento e rettifica di alcuni corsi d’acqua minori, di cui anche alcuni affluenti dell’Ospo, sia per evitarne lo straripamento in particolari condizioni meteorologiche che per esigenze di insediamento industriale.
Nel 1974 chiude definitivamente il complesso industriale delle Fornaci Valdadige, uno dei più importanti complessi industriali della zona, destinato alla produzione di laterizi. Da quel momento viene abbandonata anche la cava di argilla che si trovava sulla sponda sinistra dell’Ospo, sul cui terreno si formarono spontaneamente una serie di laghetti. Questi furono alimentati in parte dalla tracimazione di torrenti vicini, in parte da corsi d’acqua sotterranei precedentemente interrati o deviati, e in parte da apporti meteorici.
Alcuni di questi laghetti, che inizialmente venivano stimati una quindicina, furono interrati per costruire stabilimenti industriali o utilizzati come discariche. I rimanenti, in seguito ad uno spontaneo processo di naturalizzazione, hanno assunto l’aspetto attuale e conservano un elevato interesse naturalistico ed ambientale.
Aspetti florofaunistici
L’aspetto attuale dei laghetti è il risultato di un processo di naturalizzazione ed adattamento favorito dalla vicinanza di aree come il Bosco Vignano e il Monte d’Oro, che hanno determinato un processo di ricolonizzazione dell’area dal momento in cui è diminuita la presenza antropica.
Dal punto di vista floristico, nella valle risultano difficilmente rintracciabili alcuni esempi di vegetazione spontanea precedente agli interventi umani. Al posto dei boschi troviamo ora una vegetazione tipicamente fluviale e ripariale, come dimostra la presenza del salice bianco e del pioppo delle pianure, che costituiscono la principale componente arborea ed arbustiva dei laghetti.
Una fitta e bassa vegetazione arbustiva colonizza l’area circostante i laghetti, rendendo difficile il passaggio: vi riconosciamo la sanguinella, il prugnolo e il rovo. I canneti costituiscono l’aspetto più evidente e caratteristico delle zone umide, che qui è rappresentato dalla cannuccia d’acqua, così come suscitano molto interesse gli esemplari di vegetazione natante e sommersa, come l’onnipresente “lingua d’acqua”.
La componente faunistica dell’ambiente dei laghetti è diversa a seconda delle stagioni. Durante l’inverno possiamo trovare alcuni uccelli migratori provenienti dall’Europa centrale e settentrionale, come l’alzavola, ed esemplari di trampolieri come la garzetta, e alcuni esemplari di airone di medie dimensioni.
Un momento particolarmente suggestivo e didatticamente significativo per una visita ai laghetti può essere rappresentato dalla primavera. Da aprile si può assistere al risveglio di alcune specie di anfibi che dopo il letargo invernale si portano nell’acqua per compiervi la riproduzione. È possibile osservare il rospo comune ed alcuni esemplari di rane e i loro girini, e la raganella dal caratteristico gracidìo assordante udibile nelle serate più calde.
Alcune ricerche condotte in passato sul laghetto n.60 accertarono la presenza di numerose specie di pesci quali la tinca, l’anguilla, il persico sole e il luccio, che comunque, data la relativa torbidità degli stagni, restano difficilmente osservabili in un’uscita didattica.
Alcuni animali come la nutria e altre specie alloctone, successivamente adattate all’ambiente, provocano un’alterazione dell’equilibrio ecologico in relazione alle conseguenze sulla catena alimentare.
I nuovi predatori introdotti infatti, come la nutria o la testuggine palustre nordamericana, liberati dai proprietari una volta diventati “ingombranti”, possono minacciare la sopravvivenza di alcuni esemplari di insetti ed anfibi autoctoni.
Chiara Urbani
Un po’ di foto
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2 Commenti
maurizio donadon
12/02/2018 at 14:53quando si scrive un articolo come questo si dovrebbe avere l’accortezza di approfondire le nozioni che si espongono, soprattutto in ambito naturalistico, per non incorrere in luoghi comuni che danneggiano la qualità generale del testo: in particolare, al penultimo e ultimo capoverso, nei quali la nutria viene definita “predatore”, in grado di provocare mal definite alterazioni “in relazione alle conseguenze sulla catena alimentare”.
Partendo dal fatto che la nutria è un animale completamente erbivoro, che si nutre normalmente di piante acquatiche e quindi non in competizione con insetti o rane o altri animali presenti, varrebbe solo la pena di sottolineare che le campagne di sterminio di questi animali derivano da argomentazioni prive di fondamento scientifico, perchè non avvalorate da pubblicazioni peer review, bensì frutto di interessi privati, legati agli abbattimenti. Peccato, un articolo ben scritto con un finale ridicolo.
ViaggiareSlow
13/02/2018 at 16:25Rileviamo la sua segnalazione. L’autrice ritiene di aver formulato la frase finale associando la nutria alla testuggine palustre e quindi estenedendo alla prima caratteristiche (predotorie) proprie invece della seconda. Ringraziamo per l’opportuna segnalazione, rimarcando tuttavia l’inappropriatezza del giudizio espresso in merito alla qualità del testo e alla sua conclusione, che non attiene alla sua competenza. Salutoni!