2a parte
Salvore – Istarske Toplice/S.Stefano: 58 km
Ci svegliamo un po’ intorpiditi. Sono le 8 e 30 e vediamo i pescatori che rientrano dalla battuta di pesca. Scendiamo a fare colazione al porto di Salvore. Caffè, pane, burro, marmellata e uova. Il mix perfetto per partire carichi alla volta della seconda tappa. Da Salvore dobbiamo risalire fino a riguadagnare la traccia della Parenzana, là dove l’avevamo lasciata la sera prima. Per farlo, facciamo a ritroso un pezzo della strada del giorno prima. Lasciamo Salvore e il mare: lo rivedremo solamente il giorno dopo, la sera, a Parenzo. Con lui lasciamo la vita di mare, i calamari e le alici per i sapori di terra: tartufi, salame e vino rosso. Sono molto curioso e impaziente di partire: per me questa è una tappa finora sconosciuta anche al di fuori della Parenzana. Tocchera’ paesi, centri abitati e si snoderà per percorsi che non ho mai visitato o affrontato e di cui non conosco la storia.
Si sale, fin da subito. E salendo tocchiamo i campi e le casette di Monterosso (Crveni Vrh) e la struttura faraonica del Kempinski di Alberi: una cattedrale nel deserto, o meglio, una cattedrale d’oro tra zucche, ulivi e vigneti, con tanto di campo da golf e dependance con appartamenti da 250 EUR a notte. Scegliamo di scendere verso la statale e guadagnamo così in energie: pedalare sull’asfalto ci permette di fare questo pezzo più velocemente e di riguadagnare la traccia perduta dopo neanche un’ora. Eccoci, finalmente. La terra rossastra della Parenzana, dopo la U che disegna un arco nei pressi dell’abitato di Barboj.
Riprendiamo il cammino ma non è uno dei pezzi migliori. La Parenzana è affiancata dalla strada statale, in quel momento trafficatissima. Ogni colpo di pedale è accompagnato dal tipico rumore di passaggio di automobili al nostro fianco. Il tracciato poi è un continuo sali- scendi con sassi tendenzialmente grandi. Ma quello a cui bisogna stare più attenti sono i rifiuti umani: la Parenzana in quel tratto serve anche come bagno pubblico per i vacanzieri diretti a Umago e sul litorale. Ogni duecento metri vi è un tappeto di fazzoletti di carta sparsi sul tracciato. Ma ciò a cui bisogna stare più attenti sono i cocci di bottiglie rotte. Si, perché a un certo punto compaiono schegge di vetro dovunque e bisogna fare attenzione a dove si mettono le ruote se non si vuole forare. Meglio stare sui pedali fino a che la traccia migliora. La mia teoria è che tra le tante auto che passano, vi sono quelli che sparano fuori dai finestrini i resti di una bevuta tra i sedili posteriori. Mi ricorda delle scene viste altrove, dove per sbarazzarsi di una bottiglia di plastica si apre il finestrino e la si fa partire più forte possibile verso il ciglio della strada. L’ambiente e la sua protezione sembra non interessare, eppure basterebbe poco per fare tanto.
In ogni caso, dopo qualche chilometro di slalom, con il sole ormai alto, arriviamo all’abitato di Kaldanija, dove sorgeva anche una stazione. Come si fermava il treno, così ci fermiamo noi a riempire i nostri stomaci e le nostre borracce d’acqua alla taverna Lovac. Un bell’ambiente ampio, ben arredato e tipicamente istriano. Verrebbe voglia di chiamare una teglia di prosciutto e un bicer de rosso, ma è ancora presto. E’ infatti quasi mezzogiorno e le temperature iniziano a salire. “Next stop Buje” diciamo all’unisono io e mio padre. Da lì fino al paese è una tenue, piacevole ma lunga salita tra arbusti, natura e qualche casupola. Il tratto è lungo abbastanza da farti arrivare a Buie affamato e assetato al punto giusto. Lasciamo la traccia della vecchia ferrovia e saliamo, il sottoscritto spingendo la bici, mio padre pedalando, fino in paese con la sua piazzetta principale. Il vidikovac dà su uno scenario che potrebbe essere Toscana profonda. Colli ampi, appassiti dal sole, paesini sparsi qui e lì sul territorio. Un profumo di sugo viene dalle case vicine. Ci sediamo sotto la pergola di una bella trattoria di paese. Ordiniamo prosciutto istriano che ci arriva accompagnato da un favoloso panpizza fatto con farina di mais, olio, sale e pepe, cetriolini e capperi. Il tutto annaffiato da acqua, coca cola, Schweppes e radler fresco al punto giusto. Una goduria. Tanto che prendiamo un altro radler, caffè e ripartiamo solo dopo un’ora dopo aver fatto scorta di ulteriori cibarie e bevande al market del paese. Ad attenderci ora c’è quella che forse è una delle salite più intense della Parenzana: da lì fino a Grisignana, il punto più alto di tutto il tracciato, è una continua salita alla mercè del sole pomeridiano.
Eppure riparto rigenerato e rinfrancato dal prosciutto e dal radler. Il sole è alto, fa caldo, ma sento di avere ingranato la marcia giusta. Usciamo da Buje in un paesaggio tipicamente mediterraneo: pini marittimi, terra bruciata dal sole, vegetazione dormiente nel calore del primo pomeriggio. Penso che questo sia uno dei pezzi più belli e rappresentativi della Parenzana. Siamo soli, solitari in quel silenzio perfetto e meraviglioso che solo il vento rompe ogni tanto con qualche leggero soffio qua e là. In pochi chilometri arriviamo alla stazione di Tribano. Ormai vi è solo una targa commemorativa ma l’atmosfera è favolosa. E’ il Far West dell’Istria, sensazione che proverò anche il giorno dopo fermi alla stazione di Rakotule. Mancano solo le balle di fieno spinte dal vento e potremmo essere cercatori d’oro su biciclette. Fatto sta che Tribano è uno spartiacque. Fino a lì tutto bene. Poi iniziano rettilinei lunghi, caldi e in pendenza variabile che tagliano un po’ le gambe, ma soprattutto il mio morale. Come nella maggior parte dei casi, alla fine, è una questione di testa. Quei chilometri fino a Grisignana non finivano mai. Anche alla fine, nell’approcciare finalmente la stazione, vi è un ultimo strappo che non ti aspetti. In quel momento mi sono messo in contatto con il Dio della vecchia ferrovia per chiedergli “ti prego, fa che la salita sia finita”.
Il Dio della Parenzana infatti mi ascolta e mi fa subito vedere Grisignana, con il suo bel campanile, poco più il là. Non è un miraggio. Acqua e ombra sono vicini. Entriamo nell’abitato e a fianco a noi scorrono file di automobili olandesi, tedesche, austriache. I turisti hanno preso d’assalto il borgo degli artisti. Entriamo con i nostri telai a due ruote, passando davanti all’ufficio postale, a tavernette e boutique con quadri e opere d’arte e ci fermiamo da Pintur per un gelato, per bere e per godere di un po’ di fresco all’ombra di un bell’albero. Un gruppo di uomini inglesi si fermano a conversare con noi. Parlano di bici e di auto. Chissà che non gli abbiamo fatto voglia di sbarazzarsi delle quattro ruote e di inforcare le ruote della lentezza nel loro prossimo viaggio. Troviamo anche una fontana, la prima in tutti questi chilometri da Trieste, a darci refrigerio senza pagare. E’ quasi fatta, penso tra me e me: “ora rimane solo discesa verso Livade”.
Mio padre conferma: di lì a Livade è una lunga planata verso la Valle del Quieto e verso quella che potrebbe essere la nostra tappa notturna. Ma devo subito ricredermi. Quella che pensavo una tranquilla discesa è invece una dei pezzi più lunghi del tracciato e soprattutto, più ripidi. Il fondo è sconnesso, vi sono pietre di una certa dimensione alternate e ghiaia profonda che non ti permettono di scendere con facilità. Bisogna stare all’erta. Sbaglio infatti una curva e per poco riesco a rimanere in piedi. Il tracciato è esposto al sole e complice il caldo mi sembra di essere un pastore che rincorre il gregge in un’isola greca. E’ un pezzo molto suggestivo: alcuni addirittura dicono che sia il più suggestivo. C’è infatti Montona che compare all’orizzonte. Vi sono resti di stazioni qui e li: come Zavrsje (Piemonte d’Istria) o Portole (Oprtalj). Nomi che una volta raccoglievano viaggiatori e merci in partenza e in arrivo. Mi immagino il treno a salire per queste ripide line orografiche, spingendo a più non posso per arrivare a Grisignana, stanco forse quanto noi e sollevato da potersi poi godere la discesa verso Buie. Le cronanche parlano infatti di un pezzo, questo che stiamo percorrendo, pieno di insidie e di incidenti che si sono nel tempo susseguiti per vari motivi: uno tra tutti, la velocità elevata che ha portato al deragliamento di qualche convoglio. E’ un piacere riecheggiare queste memorie: sembra di vivere quei momenti concitati di carico e scarico e la frenesia dei viaggiatori di arrivare a destinazione.
Scendiamo ancora: dopo qualche viadotto incontriamo l’unico naufrago su due ruote della giornata. Siamo fuori da una galleria buia e sentendo il rumore delle ruote ci rivolgiamo verso l’imbocco del tunnel fino a che non vediamo spuntare la sagoma di un ciclista attrezzato: ma è il tedesco di ieri! Si ferma a fare due chiacchere con quella sua “r” inconfondibile. Ci chiede: “Arrivate a Parenzo?” Non sappiamo se la sua sia una battuta o se abbia effettivamente forza e motivazione di arrivare a destinazione quella sera. Sono ormai le 18 e Parenzo per noi aspetterà sino all’indomani. Lo salutiamo augurandogli buon viaggio. Ultimi colpi di pedale. Protetti da un bosco entriamo piano piano a Livade. Le prime case, le galline, i cani e finalmente la piazza principale con il museo della Parenzana. Rivediamo il tedesco che riparte, probabilmente in direzione Montona. Livade si presenta deserta: non passa una macchina, non vola una mosca. I piccoli condomini slavati stonano con l’ambiente circostante ma regalano anche un fascino decadente a questo paese. Siamo in dubbio: proseguire ancora verso Montona e dormire in uno dei borghi più belli dell’Istria o deviare di qualche chilometro per le Istarske Toplice, le terme istriane posizionate come in una valle carsica, cinque chilometri più a monte. Vediamo due uomini sotto un albero a conversare: “Sapete se le Istarske Toplice sono vicine?” gli chiediamo. Gentili, ci incoraggiano ad andare a dormire proprio lì, alle terme. Prendiamo una stradina secondaria deserta. Passiamo davanti al ristorante Zigante, il re dei tartufi di Livade, e procediamo in direzione Gradigne. A destra c’è la foresta di Montona: quella che riforniva la Serenissima Venezia nei secoli precedenti di ottimo legno per la sua flotta di navi e per le palafitte.
Dopo un po’ arriviamo a destinazione. Il tempo in questo posto si è fermato. Istarske Toplice è un posto frequentato da istriani dai settanta in su che parlano italiano e che vengono a godersi il fresco e le acque solforose in compagnia. Oltre a loro, turisti e viaggiatori rumeni, olandesi, italiani popolano le camere che conservano tutta la magia dell’arredamento jugoslavo, un po’ ammodernato, ma neppure tanto. Le camere sono pulite ma contengono quel fascino retrò che a me fa impazzire e mi riporta in un attimo a trent’anni fa. Una scena da hotel jugoslavo dove gli avventori bevono birra in compagnia, fumano, si raccontano storie del passato, mangiano e ballano dopo cena. Come da copione la serata infatti va così. Finita la cena, sostiamo più di un’ora all’esterno sorseggiando un pelinkovac e godendoci il fresco della valle, della notte appena scesa e lo spettacolo di quelle anime felici e danzanti. Anche stasera, stelle, grilli e odore non di mare, ma di zolfo.
Istarske Toplice/S.Stefano – Parenzo: 52km
Sveglia presto. Il sole ancora non scalda l’atmosfera e fuori c’è profumo di erba fresca. Apro gli occhi alle 5 e 50 e ho già voglia di ripartire. Dopo la colazione, prepariamo le borse per quella che è l’ultima tappa. Come ogni viaggio, l’ultima tappa ha anche un certo sapore di malinconia perché alla fine, come dicono in tanti, arrivare è solo una gioia momentanea mentre è l’andare la vera felicità. Con questo spirito saliamo quatti quatti sulle nostre selle, e quasi a non voler disturbare la natura ancora silenziosa, spingiamo le bici di nuovo fino a Livade. Sono le 9 e ha appena aperto il negozio di tartufi di Zigante: nonostante abbia ancora il sapore del caffè in bocca, non resisto ad entrare: salame di Boskarin, piccolo vaso con patè al tartufo, olio istriano. Compro solo l’essenziale per non appesantire troppo il carico sulla bici anche se salami e prosciutti mi guardano come a dire “che fai, ci lasci veramente qui?”.
Riprendiamo la strada verso il mare lì dove l’avevamo lasciata. Ed inizia subito la salita. Quando avevamo visto l’altimetria ci eravamo un po’ spaventati all’idea che bisognava scendere ai 19m di Livade per poi tornare ai 277 di Visinada. Per fortuna però, la salita è fin da subito molto più graduale e il fondo molto più agevole della tratta Grisignana – Livade. Saliamo verso la stazione di Montona, con la bella istriana alla nostra destra “come fosse una regina”. Il libricino che abbiamo letto sulla Parenzana recita proprio così, ed effettivamente Montona è lì, sempre lì, non ti lascia mai. Si mette in mostra, vedi il lato A, il lato B e il lato C di quel bellissimo borgo arroccato sul colle.
Dopo qualche pedalata vengo accerchiato da tafani. Le fastidiose mosche che non ti lasciano in pace, anzi, vengono a disturbarti vicino agli occhi e delle quali sembra sia impossibile liberarsene. Così infatti è. Tento la fuga in solitaria per liberarmi da queste bestiole ma finisco a fare un tratto in salita praticamente in apnea e a bruciare fin da subito molte energie. Alla fine, gli amici tafani mi hanno abbandonato quando ho deciso di fermarmi. Valli a capire questi. Attendo mio padre e poco dopo siamo in vista della stazione di Montona. 119 m sul livello del mare, il che vuol dire che siamo già saliti di 100 m. Ripartiamo quasi subito poiché di strada ce n’è ancora e perché le gambe questa mattina girano bene e senza sforzi. Prossima fermata Karojba. Stazione che per un motivo o l’altro non notiamo, tanto siamo concentrati a pedalare. Si va che è un piacere. La velatura del cielo permette di salvare preziosi liquidi e energie. La pedalata è subito più energica e a entrambi sembra di volare. A destra lasciamo l’abitato di San Pancrazio (Brkac) e poco dopo, tra lunghe curve e viadotti, arriviamo a Rakotule.
Questa stazione non si può mancare. C’è lo spazio per accommodare anche oggi due treni, una bella pensilina, un punto d’avvistamento, una griglia a disposizione dei viaggiatori e un bagno “in frasca”. Insomma, è una stazione ancora oggi, quasi in funzione. Il panorama è spettacolare e a dargli quel tocco da Far West è non solo la struttura pensile in ferro battuto, ma anche la trasandatezza del luogo. I cestini dei rifiuti sono stati probabilmente ribaltati dal vento in occasione di qualche temporale e ci sono carte, bottiglie, scatolame, ecc. dappertutto. Più che una stazione per ciclisti e camminatori sembra la bachina di un autogrill. Passa una coppia vestita da ciclisti professionisti trainante un simpatico cane che si gode il paesaggio. E’ lui il re. Viene portato in trionfo su per la salita senza fatica. Lo guardo e per un attimo mi pare proprio di scorgere chissà dove nel suo sguardo la consapevolezza di godersi quel paesaggio. Sarà un’allucinazione, o forse no.
Ripartiamo anche noi passando presto gli avventurieri con appresso il cane. Pedalate potenti e distese. Veniamo su a 14-15km/h. Mi sembra veramente di volare rispetto a ieri. Parte della salita non la metto bene a fuoco. Ricordo gli scenografici viadotti, le pareti di roccia, il cippo dei 100km, ma tutto è focalizzato all’arrivo trionfale a Visinada, valico di scollinamento. Di lì a Parenzo è quasi tutto discesa. Infatti, con quindici minuti di anticipo rispetto alla nostra previsione, arriviamo a Visinada. E’ quasi mezzogiorno e cerchiamo un posto per rifocillarci. Il Bike Point è vicino e brindiamo alla salita terminata e alla discesa che ci aspetta. Già che ci siamo, prendo un etto di prsut al market vicino e pane, da mangiare poi alla prima sosta. Vicino a noi, tre ragazzi sui 35, intenti a messaggiare sul telefono. Sono anche loro ciclisti ma l’ho capito solo dopo. Vestiti com’erano, senza un filo di sudore e intenti a parlare al telefono li ho confusi per turisti da tartufo.
Ripartiamo. Passiamo la riproduzione del locomotore della Parenzana che ci dà il benvenuto in un nuovo paesaggio. Non più carsico, non più di montagna, ma tipicamente d’Istria. In venti metri si aprono a vista d’occhio campi di terra rosso intenso, delimitati da recinti dove crescono enormi zucchine. Una vecchia Lada è parcheggiata vicino ad uno di questi campi ed è l’immagine che per me descrive al meglio l’Istria. Spira anche vento da mare. Porta nuvoloni scuri e carichi di pioggia. Cadono quattro gocce, ma terminano quasi subito. E’ uno scenario da quadro di Van Gogh. Colori intensissimi dipingono la nostra discesa verso Baldassi, dove il treno una volta si fermava al cospetto di una tabella e di una lanterna. Scendiamo, finalmente discesa. E con la discesa anche quel dolceamaro sentimento che il viaggio sta per terminare.
Continuiamo all’ombra di una foresta accerchiata dai campi di terra rossa: si dice che questa sia una delle zone più ricche dell’Istria. I vigneti si distendono a perdita d’occhio da qui a Visignano, la nostra prossima fermata. Una fermata speciale per noi, perché casa natia di mio nonno e dei suoi fratelli poi andati a vivere negli Stati Uniti e in Argentina. Quante strade, tutte partite da questo borgo istriano. Nonostante la ferrovia passi sotto Visignano, decidiamo di fare una deviazione e di andare a rendere omaggio alla memoria. Entriamo trionfanti in paese e andiamo a banchettare sotto la loggia eretta nel 1785. Chissà quante persone sono venute prima di noi a vedere quel panorama, ad ammirare il mare che si vede nuovamente lì, in lontananza. Una volta giunti a Visignano si sente l’arrivo. Parenzo è ad un tiro di schioppo da lì.
Riprendiamo il percorso per gli ultimi chilometri. Prossima stazione Villanova, o Nova Vas. Passiamo a due passi dalle Grotte di Baredine ma non deviamo. Tiriamo dritti verso l’arrivo e verso il mare. Passiamo la borgata di Mihatovici, dove graziose villette rinnovate annunciano il ritorno alla civiltà, alle automobili e alla modernità. Due curve, le ultime sulla terra battuta e siamo di nuovo su asfalto. Un paio di rotonde ed entriamo a Parenzo per la porticina. Non prendiamo infatti la strada principale ma scendiamo verso il mare e costeggiamo gli alberghi pieni zeppi di turisti in assetto relax. Imbocchiamo neanche a volerlo Via Nikola Tesla e cosa troviamo? La vecchia stazione di Parenzo. Eccola lì. Quasi la mancavamo. E invece, senza volerlo, l’abbiamo incontrata. Ormai è inghiottita da parcheggi e da una stradina secondaria ma per noi è come aver trovato il tesoro cercato per ben 132km. L’atmosfera è umidissima e non c’è un alito di vento. Scattiamo una foto commemorativa con il campanile sullo sfondo. E’ fatta. Il resto è cronaca di un paio d’ore di relax. Un bagno rigenerativo accompagnato da radler e biscotti. Eppure ancora una cosa merita di essere menzionata: al ritorno, invece di affidarci all’automobile o al bus, abbiamo preferito il nostro mare. Ecco che per tornare a Trieste abbiamo atteso l’arrivo di Liberty Lines e del suo aliscafo che in poco più di un’ora e mezza ci riporta al Molo Quarto di Trieste, lì vicino a dove tutto è iniziato due giorni prima. E’ la chiusura del cerchio. Dall’aliscafo, morbido sulle onde come un aereo in cielo, si vede tutta la costa. Umago, Salvore, poi Pirano, Punta Grossa ed infine, Trieste. Trieste che vista così sembra più Durazzo, Vienna, e Istanbul allo stesso tempo. I condomini alti, i palazzi viennesi e le navi per il Bosforo danno alla città un’aurea totalmente nuova. Attracchiamo. Controllo passaporti con bici al traino. Cala il buio e Trieste si accende nell’aria fresca di una sera di fine agosto.
Una riflessione finale
A questo punto bisognerebbe fare un riassunto finale, ma questo testo mi sembra corposo e riassuntivo al punto giusto, così com’è. Non ha bisogno di accorciamenti e di sinopsi. Invece, vorrei sottolineare la gustosa libertà data dalla bicicletta e dal suo andare lento. E’ una liberazione: in un mondo governato dalle automobili e dove tutto viene fatto velocemente, il lusso è il tempo, e il tempo è bello che scorra lento, soprattutto quando si viaggia. La bici e queste avventure lente su due ruote danno tutto questo ed e’ stata per me una piacevole sorpresa che spero di rivivere al più presto. E’ bello vedere posti familiari da prospettive diverse, luoghi conosciuti che all’improvviso non si riconoscono più. Tutto viene stravolto in una manciata di chilometri e di pedalate. Ci si adatta subito al nuovo ritmo e il corpo, che dopo la prima tappa è dolorante e affaticato, capisce subito che quella mobilità è vita. Alla terza tappa ha ingranato e potrebbe arrivare in capo al mondo pedalando. Anche questa è stata una preziosa riscoperta.
Un grazie speciale a mio padre Paolo per avermi seguito in questa avventura.
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