Il respiro si condensa in un attimo nell’aria frizzante di una mattina di fine ottobre a San Pietro del Carso. Così lo chiamavano i soldati e i funzionari trasferiti ai confini del Regno, a presidio del Vallo alpino orientale. Laggiù in fondo un confine, una riga tirata con l’inchiostro dove le Alpi Giulie lasciano il cielo alle Dinariche. Dove il Carso cede la terra alla Carniola.
Mons Albius, Veliki Snežnik, Krainer Schneeberg o Monte Nevoso, quattro nomi in lingue diverse a disegnare il re dei monti del Carso, sullo sfondo, oltre una maglia fitta di boschi color ruggine.
Traguardo con lo sguardo l’orizzonte, volgendo la vista ad oriente, stringo gli occhi alla ricerca della cima, come i bucanieri con il binocolo studiano il bersaglio da assaltare. L’assalto lo portiamo quando il gigante è vulnerabile, nella stagione di mezzo. Quando lo sciame estivo si dissolve e le cime non hanno ancora vestito la neve come soprabito.
È una finestra stretta. L’aria che scende dal nord lascia ancora poco spazio per frugare nelle tasche dei monti. Domani potrebbe girare la corrente e aprire il soffitto alla pioggia di bianchi cristalli, oppure più avanti, spalancare la porta del Buran, il terribile vento gelido che arriva dalle lontane steppe della pianura sarmatica ai piedi degli Urali. Ora le giornate si cullano nel limbo di un autunno sospeso, in attesa di un segnale che chiuda la finestra oppure che la lasci aperta per accogliere un altro giro del calendario.
Siamo nel cuore verde della Slovenia sud-occidentale, non così lontani dall’Adriatico da sentire l’alito umido del mare e da poterne scrutare le forme dalla cima dei monti.
Le biciclette scivolano come le lontre in una palude di campi d’erba pettinata; Palcje (602), Jursce (704), pascoli, pecore e mucche in attesa del caldo trasloco e poi il bosco ci inghiotte. Il cambio ticchetta e la strada crepita sotto le ruote sulla strada bianca che a momenti si inerpica e a momenti spiana e raddrizza il panorama.
Due poiane danzano e si incrociano sopra le nostre teste, il picchio rosso tambureggia tra i rami più alti, fringuelli e ghiandaie come proiettili tagliano i sentieri scomparendo nel sottobosco.
Persi in una ragnatela di strade bianche, avvolti da una sterminata faggeta raggiungiamo l’oasi verde di Mašun (1028). Dopo i resti del castello di caccia dei principi Hermann e Georg, incontriamo la casa forestale e centro visite oltre alla calda Gostišče punto fermo per ogni escursione nel bosco. Da qui, si fa rotta verso sud lungo una larga strada bianca avvolta nel bosco in direzione Sviščaki. Piccole baite, cippi o edicole sacre compaiono nelle rare radure ai margini della via.
Una spessa moquette di foglie secche si apre sotto le nostre ruote, spalancando varchi come in un biblico passaggio sul Mar Rosso. Poche sono quelle rimaste appese alla cime degli alberi, cadono giù una dopo l’altra sotto gli ultimi aliti del respiro d’autunno.
A quota 1242 si apre una morbida conca che appare come un antico racconto di favole, dove una miniatura di villaggio si materializza al di là del bosco di faggio. Un robusto rifugio in pietra e tante casette dai tetti spioventi, sparse in questa dolce conca ai piedi del gigante. Ai tempi dell’amministrazione italiana, qui venne eretto un imponente rifugio in onore del poeta Gabriele D’Annunzio nominato dal re Vittorio Emanuele principe di Montenevoso. Al seguito delle vicende belliche della seconda guerra mondiale l’edificio fu praticamente distrutto.
La voglia di salire ancora è sedata dal poco tempo rimasto, le giornate si accorciano in fretta e il timore di finire al crepuscolo lascia solo il tempo per salire fino al termine della larga strada bianca che si arrampica da sud-est. Raggiunte le indicazioni della Kapetanova Bajta, e superata quota 1500 bisogna compiere un rapido dietro-front, la bici non passa più, da qui alla cima (1796) si sale a piedi attraversando una pendice tapezzata a pino mugo. Qui gli ultimi bassi faggi si torcono e scompaiono diradandosi, lasciando più spazio alle pietre e muschi smeraldo. La vetta si maschera dietro una sfilacciata coltre di nuvole basse, il fischio di un falco pecchiaiolo che confondo con una poiana, come un severo capostazione mi intima di risalire in carrozza rinunciando alle ampie panoramiche che solo le cime regalano.
È discesa ora, si balla tra il pietrisco e le poche foglie rimaste, la bicicletta è nervosa come un cavallo irrequieto. Pochi minuti per una calda sosta al rifugio, tra il camino acceso e un profumatissimo strudel dal gusto cannella, e via con il timone diretto a ovest.
Cambia il tempo in fretta qui, è lo Jugo che soffia ora, potrerà pioggia o neve chissà; la finestra che abbiamo aperto è destinata a chiudersi presto. Scendendo a sud verso la verde piana di Koritnice il panorama si allarga e il cielo sembra smagliarsi aprendo crepe di blu fiordaliso tra il fondo di grigio lavanda.
È un secco odore di fumo che ci accompagna, è la legna che brucia in qualche camino, è il colore del faggio d’ottobre, il turchese delle imposte socchiuse in paese, è il gusto delle mele cotte acciambellate nello strudel, è l’aria che ti scalda la faccia e alle spalle ti lasci un magico labirinto di sentieri e strade antiche in bilico tra oriente e occidente.
Ha vinto lui, il Nevoso d’autunno, altri mesi dovranno aspettare prima di ritrovarlo dolcemente vulnerabile, altro vento, altra neve e ghiaccio custodiranno in silenzio le anime degli uomini e donne che qui sotto hanno costruito le loro vite lavorando curvi in questi boschi infiniti di legno color cenere.
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